(EXTRA-CINEMA) - L.A. NOIRA cura di Luca Lombardini

Chi: Elizabeth Short, di anni 22. 1 metro e 65 di statura, peso 54 Kg. Professione prostituta, nome d’arte: Dalia Nera.

Quando: 15 gennaio 1947, intorno alle 7.30.

Dove: incrocio tra la South Norton e la 39esima, Crenshaw, Los Angeles, California (USA).

Come: torturata per 72 ore, il corpo viene ritrovato sezionato in più parti. Arma sconosciuta, nessun testimone oculare.

Perché: movente sconosciuto, colpevole mai rintracciato, caso ancora aperto.

Dalia Nera, primo episodio della quadrilogia di Los Angeles, è dai più considerato come uno dei massimi momenti di espressione artistica mai raggiunti dall’autore in tutta la sua carriera. Grazie al successo del suo settimo romanzo infatti, Ellroy viene ben presto incoronato dalla critica come l’ultimo/grande epico della narrativa nera contemporanea: passionale, perverso, violento, quasi un feticista delle nefandezze umane, si pone, assieme allo scomparso (e compianto) Bunker, come principale cantore dell’America disgraziata e omicida, la stessa da lui conosciuta negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza; una giovinezza spesa tra crimini di strada, alcolismo, figura paterna assente, disintossicazioni e ricadute.
Ambientato nella città degli angeli nella seconda metà degli anni ’40, possiede non solo gli elementi tipici del noir alla Ellroy (sbirri rudi, indagini poco ortodosse, misteriose femme fatale dal passato oscuro e dal presente torbido, metropoli violenta, nera e mefitica), ma si pone fin da subito come point break creativo dello scrittore, che rivede nella figura della Short la tragica e tutt’ora insoluta sorte che accolse la madre, quando lui era poco più di un bambino. Immagini e ricordi, ai quali Ellroy concede ampio respiro fin dalla dedica che precede l’inizio del racconto: “Madre: ventinove anni dopo, queste pagine d’addio in lettere di sangue”.
Come nel precedente Clandestino, l’incipit introduttivo e pacato fa da contro altare ad una seconda parte spietata e per nulla adatta ai deboli d’animo e di cuore, dove la scrittura veloce e incisiva proietta il lettore nelle zone d’ombra più intime dei personaggi, con la voce narrante del protagonista che circonda, sempre in prima persona, il tragico evolversi degli eventi e delle indagini.
Ispirato ad un fatto di cronaca nera realmente accaduto, The Black Dahlia mostra al mondo intero lo smisurato talento del degno erede di Dashiell Hammet, un universo cupo attanagliato nella notte, con l’ambientazione losangelina che grava sul destino dei protagonisti come un opprimente macigno di ghisa, fatto di violenze, sudiciumi e contrasti geografico/sociali (il ridondante parallelo Hollywood/Bidonville). In questo suggestivo sfondo si muovono le sagome di Dwight e del suo collega, amico e avversario Lee, i due poliziotti soprannominati dalla stampa locale “ghiaccio” e “fuoco”, sopravvissuti ad un trascorso non proprio candido e alle prese con un odierno solo all’apparenza sereno, durante il quale i loro pensieri sono spesso attraversati da eventi lontani, misteriosi e poco chiari.
Quello dipinto da Ellroy, è un mondo occupato da solitudini e da amicizie che si sgretolano dinanzi l’imperversare del fato, dove l’amore non riesce mai a sbocciare nella sua più romantica e classica configurazione, perché gestito da individui bloccati nella propria dimensione fatta di dolore e di passati non ancora cancellati, incapaci di superare la barriera del rapporto sessuale occasionale, feroce e represso.
The Black Dahlia non è, come del resto tutti i libri dello scrittore, un semplice racconto poliziesco: privo dell’ironia di fondo che caratterizzava le pubblicazioni di Chandler, lontano anni luce dall’invincibilità ai limiti del superomismo propria del Mike Hammer di Spillane, si pone fin da subito come una spirale infernale che tutto centrifuga e nulla risparmia: la città, le istituzioni, gli uomini, le loro carriere; sogni, incubi, speranze e ambizioni che vengono triturati ciclicamente all’interno di un turbinio quotidiano fatto di anarchia, violenza, meretricio e efferati delitti. Un humus letterario che Ellroy giustificò con queste parole:<<Volevo rimanere negli anni quaranta e cinquanta. Volevo scrivere romanzi più grossi. Avvertivo il richiamo di uomini cattivi che compivano azioni cattive in nome dell’autorità. Volevo far piazza pulita dell’eroe nobile e solitario, ed esaltare sbirri carogne dediti a fottere derelitti. Volevo canonizzare la Los Angeles segreta>> e che noi, aspettando l’attesissima trasposizione cinematografica firmata da De Palma, vi anticipiamo così:<<I fotografi erano entrati nel terreno e scattavano le loro istantanee puntando l’obbiettivo verso terra. Mi feci largo tra gli uomini di pattuglia: c’era il corpo nudo e mutilato di una giovane donna, tagliato in due all’altezza dei fianchi. La metà inferiore giaceva a gambe divaricate qualche metro più in là del torso. Sulla coscia sinistra era stato inciso un grosso triangolo e un orribile taglio si allungava dal bordo sezionato fino a raggiungere il pelo pubico. I lembi di pelle erano stati tirati all’indietro e si poteva vedere come gli organi interni fossero stati asportati. La metà superiore appariva in condizioni ancora peggiori: i seni erano martoriati da bruciature e sigarette, il destro penzolava dal torso e solo alcuni brandelli di pelle lo tenevano attaccato, il sinistro presentava dei tagli attorno al capezzolo. Altri sfregi straziavano le carni fino a raggiungere le ossa, ma il peggio era il viso della ragazza, bruciacchiato, con il naso rincagnato nella cavità facciale, la bocca devastata da uno squarcio che andava da un orecchio all’altro. Pareva sghignazzasse, dava l’idea di farsi beffe delle brutalità inflitte al resto del corpo. Avrei portato quel ghigno con me fino alla tomba, ne ero certo>>.

 

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