LETTERE DA IWO JIMA
REGIA: Clint Eastwood
SCENEGGIATURA: Iris Yamashita
CAST: Kazunari Ninomiya, Ken Watanabe, Tsuyoshi Ihara
ANNO: 2006
A cura di Pierre Hombrebueno
LE BANDIERE DEI NOSTRI PADRI
C’è una scena, in Lettere da Iwo
Jima, dove una famiglia civile subisce aggressioni per il semplice motivo
che non ha appesa alla propria casa la bandiera dell’Impero giapponese.
Dunque, la bandiera dei padri. Irrimediabilmente, da questo piccolo
flash(back), capiamo subito in modo chiaro e cristallino che questa opera è in
primis un riflesso speculare di Flags of
our fathers, anzi, forse, e bestemmierò in questo, è addirittura un
riflesso ancor più profondo ed evocativo del precedente, semmai sia possibile.
La simbologia di un’icona, con tutto ciò che ne concerne e ne deriva, i
valori e le morali che un paese, una nazione, una società sottopone al mondo.
Va soprattutto sottolineato, però, che è appunto la bandiera DEI PADRI, che
come esplicita ancora una volta Eastwood,
può essere (giustamente) una bandiera diversa da quella DEI FIGLI. Non tanto
come rifiuto di/per una patria, ma semplicemente un cambio direttivo delle
proprie priorità etiche e spirituali: così come i soldati di Flags non combattevano tanto per la
(vittoria) della patria, bensì per il legame umano/d’amore verso i propri
compagni, in Iwo Jima troviamo Saigo,
per il quale il vero onore non sta nel morire per l’imperatore e per
quella bandiera rossa e bianca, bensì tornare dalla propria famiglia, divenendo
così modello chiave della vera significazione di questo film, definito da
alcuni critici come qualcosa di “pericolosamente reazionario e
propagandistico”. Beh, Lettere da
Iwo Jima, così come Flags of our
fathers, non è affatto reazionario né tantomeno propagandistico.. semmai è
un semplice atto d’amore umano, così come lo erano Million Dollar Baby e I ponti
di Madison County. Perché pur non
trapelando un giudizio morale verso il suicidio dei soldati giapponesi, capiamo
che l’occhio di Eastwood cala
propriamente su quel piccolo grande soldato di Saigo (più di quanto accada con
il generale Kuribayashi), l’unico che rifiuta quella “morte
onorevole”, che strappa (almeno ideologicamente) quella bandiera,
quell’orgoglio, o per usare un termine sicuramente più consono:
quell’eroismo. Proprio come in
Flags, Eastwood smonta (per poi
rimontarlo) la figura dell’eroe classico o romantico qualsivoglia,
invertendo i ruoli per risalire ancora una volta a quella rinnovazione
ideologica del proprio Cinema, cosa che in Iwo
Jima viene messo alla luce più che con l’opera precedente, in quanto
la figura narrativa principale è proprio il soldato meno virtuoso della
compagnia, colui che nemmeno sa sparare degnamente un bersaglio e che viene
maltrattato dai superiori come fosse merda della peggior specie. Una spazzatura
come Mo Cuishle, a cui Eastwood saprà
donare l’atto più grande e umano possibile: L’Amore. Perché è
esattamente ciò che pulsa Iwo Jima,
il demiurgo invisibile che riflette incondizionatamente la messa in scena,
questo amore che vive di un fuori-campo (la figlia di Frankie e il padre di
Maggie in Million Dollar),
fuori-campo che può diventare a sua volta flashback, dunque ricordo
fantasmagorico (I ponti di Madison County)
e che pare ri-echeggiare fra il buio di queste nuove grotte scavate: Saigo,
spazzatura e nullità vivente, diventa, incarna, deve incarnare,
necessariamente, il nuovo e unico vero eroismo plausibile – il ritorno
del ritornare. Perché in Iwo Jima
c’è una promessa segreta, che non è quella rivolta verso una bandiera
sventolante d’orgoglio nazionale, bensì quella sussurrata nel bellissimo
flash back di Saigo con la moglie incinta, passaggio rivelatorio verso il suo
unico e vero tesoro, suo stesso sangue. Probabilmente il momento più intimo di
tutto film (e di sicuro uno dalla carica enfatica più massiccia),
l’apertura di un cuore che rivela propriamente il fulcro che muove Iwo Jima e il Cinema di Eastwood, che sta invecchiando come lui
stesso se ne rende conto, e per questo (ci) concede di aprire le proprie
barriere in territori che erano rimasti ancora nell’ombra.
L’Ispettore Callaghan è ufficialmente morto. Eastwood, come Rocky Balboa,
è diventato un fantasma che acchiappa il ricordo più grande della propria
esistenza, e vi ci dà, a più di 70 anni, corpo e anima – anima e corpo,
per un ritorno della concretezza e la vittoria del momento vissuto contro
quello immaginato e sognato.
(NUOVO) WESTERN DI (NUOVA) FRONTIERA
Una seconda bandiera che pare essere sempre sventolata nel Cinema di Eastwood è quella delle proprie
influenze cinematografiche, in primis John
Ford. Dunque, come sempre, il classicismo, che rimane il marchio
messainscenico principale, come rimanda bene la scena del Generale Kuribayashi
che scende dall’aereo all’inizio, colto da quell’avvicinarsi
della macchina da presa come presentazione della perfetta icona Fordiana
circondata da carisma e fotogenia Western. Perché se è vero che quelle distese
dell’isola di Iwo Jima, quella sabbia nera e quei paesaggi desolati,
siano a tutti gl’effetti nient’altro che un deserto, una frontiera
(quella dell’immaginario classico) da conquistare, allora è anche vero
che Kuribayashi è nientedimeno che il John
Wayne della situazione. Non tanto (solo) nella delineazione psicologica
dell’archetipo, bensì in quelle tante sequenze solitarie, isolate, del
Generale in preparazione all’invasione, di cui possiamo apprezzare la
propria totalità, il proprio scavo significativo. E una prima riflessione
potrebbe sorgere chiedendoci perché Eastwood
abbia scelto di collocare un personaggio come quello interpretato da Ken Watanabe (John Wayne) dall’estremità giapponese, e non nel precedente
spicco americano. Già da questa prima scelta capiamo che l’autore ha
intenzionalmente mischiato le carte della storia (cinematografica) come
l’abbiamo intesa fin’ora: non ci sono più le divisioni
(psicologiche, così come estetiche) cowboys – indiani – banditi
– giustizieri – cattivi. Il John
Wayne, l’eroe per eccellenza che incarna implicitamente le virtù di
quella saggezza volendo un po’ naive, lo ritroviamo dall’altra
parte della barricata. Dunque, se John
Wayne è qui, chi sono gli indiani, i banditi, i NEMICI? Non esistono e non
li riconosciamo più, e in questo Eastwood
segna e vince la prima scommessa: riflettere entrambe le versanti senza
confinare differenze morali fra americani e giapponesi, vincitori e vinti.
Inglobare la guerra non in una riflessione bellica, bensì in una riflessione
umanistica, tracciata da una linea comune che cancella ogni muro.
Una seconda osservazione da fare è sullo stesso ruolo che viene imposto a
Kuribayashi, infatti, al contrario di quanto si poteva supporre, la figura del
generale viene offuscata da quella di Saigo, suo estremo opposto. Da una parte,
Kuribayashi, abbiamo l’archetipo dell’eroe western, del cowboy,
appunto del Wayne, o se vogliamo,
degli stessi personaggi Eastwoodiani dai tempi dello spaghetti con Sergio Leone. Dall’altra, abbiamo
quella del perdente, uno che nel selvaggio west come è stato sempre presentato
dagl’altri avrebbe preso solamente buchi di pallottola in testa.
Concentrando l’occhio della narrazione su Saigo e precludendo Kuribayashi
sullo sfondo, Eastwood non
decostruisce solamente, come detto precedentemente, la figura eroica, bensì lo
stesso meccanismo del Western Classico.
Non è un caso, quindi, la comparsa di quel cavallo selvaggio e possente che
vediamo approdare nell’isola, a evidenziare ulteriormente l’entrata
del West in questo East(wood). E dopo le prime bombardate degli aerei, questo
cavallo ritaglierà proprio un piccolo spazio rivelandosi come il cadavere più
importante, esattamente per ciò che intende significare: non è solo la morte di
un cavallo, è la morte di un topos.
Riformulando: Eastwood capisce che la
bandiera dei suoi padri (Ford, in
primis), ormai, non è più la stessa sua, e ciò gli permette di capovolgerne i
luoghi comuni, di decentrare le icone sotto un nuovo punto di vista e un nuovo
modo costruttivo, in una maniera molta più radicale e incisiva di quell’ Uomo che uccise Liberty Valance, dove John Wayne si mette da parte per dare
spazio a James Stewart. In Iwo Jima John Wayne non concede più, è OBBLIGATO a farsi da parte, perché
ciò che maggiormente interessa Eastwood
è la creazione di nuove figure per portare a passo il proprio Cinema, una
riflessione morale ben più ampia. In questa lotta per la conquista della
frontiera, l’unico a uscirne in qualche modo “vincente” sarà
proprio l’uomo che nemmeno sapeva sparare e cavalcare. L’Uomo che
NON uccise Liberty Valance.
DALLE BANDIERE ALLE LETTERE
Un’altra critica, tra quelle poche, rivolte a Lettere da Iwo Jima, si concentra invece sulla sua strettezza
narrativa. Ed effettivamente, gran parte dello svolgimento avviene rinchiuso e
dilatato fra le trincee, al buio, con quelle esplosioni e quegli spari che
rimangono in fuori campo. Ma è vero, come ha detto un altro critico, che Flags of our fathers sta a Mystic River come Lettere da Iwo Jima sta a Million
Dollar Baby. E aggiungerei: Flags parte
dall’esterno per arrivare all’interno, mentre Iwo Jima parte dall’interno per arrivare all’esterno.
Non solo perché narrativamente, sono gli Americani di fuori che devono invadere
l’isola con i Giapponesi che vi risiedono dentro, ma anche e soprattutto
perché se da una parte abbiamo un’opera di coralità, di ricchezze
narrative e sintattiche addirittura inimmaginabili per un Eastwood, da quest’altra parte, stavolta, abbiamo un ritorno
alle viscere, all’intimità. E quelle viscere sono principalmente proprio
spaziali: le trincee (viscerali, proprio per definizione), luoghi di scavo, non
solo fisico, ma anche e soprattutto emotivo. Perché se Eastwood ha dedicato il tempo dell’azione e del movimento a Flags, in Iwo Jima vi mette la versante dell’interiorità, dello
stomaco, dell’autopsia. Abbiamo visto (ci è stato concesso vedere) le
propagande statali fra le bandiere a stelle e strisce, ora invece abbiamo
lettere sepolte e ritrovate, lettere di pensieri e di lacrime, a volte flussi
di coscienza che attraversano oltre l’anima dei soldati.
In Flags, Eastwood ha tramutato i
corpi in una sagoma (la stessa sagoma della famosa finta fotografia scattata
sulla collina dell’isola), e ora, finalmente, questi corpi ci vengono
restituiti col loro sangue, il loro cuore pulsante. Ed è magnificenza enfatica
in ogni singola scena, quasi sempre arricchita da quelle poche note ritornanti
della composizione musicale: entriamo in una sfera tanto più ridotta
(spazialmente, ma anche temporalmente) quanto emotivamente ricca nella propria
povertà rispetto al predecessore. Molto più ridotte le scene esplicite di
guerra. Meno Soldato Ryan. Più Malick. La macchina da presa si rifugia
coi suoi soldati tracciandone un ritratto più sincero e umano possibile. Con un
calcolo divino, meticoloso, meraviglioso della messa in scena, dove i silenzi e
i pensieri illuminano quel buio e riempiono quel vuoto, quelle macerie di terra
morta, regalandoci immagini sacre, tinte di quella padronanza poetica che
solamente Eastwood e
nient’altro che Eastwood sa
mettere in atto. Con quel senso di malinconia progressiva e formale, con tanto
di stacchi sul nero (quasi dissolvenze) a rimembrarci il miglior Cinema
Americano della cristallizzazione. Dopo
Flags, Eastwood si discosta
nuovamente dalle velocità super-soniche e post-moderne ritornando al suo punto
di partenza, quasi come in un cerchio che ricomincia dalle proprie origini per
(ri)completarsi, senza però rischiare di ripeterci le stesse medesime lezioni.
Perché Eastwood potrà anche aver
ri-attraversato sempre gli stessi territori, ma ogni volta è circondato di
nuova illuminazione, un continuo crescere, distruggersi (distruggere le
convenzioni del proprio Cinema) e ricomporsi magicamente in costante divenire,
plasmarsi di nuovi occhi di rilettura ed esposizione di idee maturate e
(ri)trasformate, ogni volta aggiornate. Come a dirci che Eastwood è SEMPRE e SARA’ SEMPRE Eastwood, pur NON essendo più Eastwood.
Ogni suo film è sempre uguale ma diverso. E questo, è sintomo sempre più chiaro
di pura autorialità in crescita. Perché a differenza dei vari Scorsese o quant’altro, egli sa -
vuole - pretende - ogni volta di dare qualcosa di puramente nuovo nel proprio
Cinema, senza limitarsi ad una pura riproposizione di cliché, seppur autoriali,
con i quali campare per anni nella gloria. Eastwood
non si vergogna di ammettere che è ancora un Autore in fase di
“sviluppo” (a più di 70 anni!!), rifiutando di vivere in
compartimenti stagno. E ciò lo rende, oltre che il cineasta più sincero che
ancora abbiamo, anche e soprattutto semplicemente il MIGLIOR Autore che il
Cinema di oggi possa vantare.
GRAZIE DI CUORE.
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