LETTERE DAL SAHARA
REGIA: Vittorio De Seta
CAST: Djibril Kébé, Paola Ajmone Rondo
SCENEGGIATURA: Vittorio De Seta
ANNO: 2006
A cura di Davide Ticchi
VENEZIA 06’: LA DOCU-FICTION
E’ IMPAZZITA
Non parlo a caso nel titolo del mio pezzo, risalente alla prima giornata
ufficiale della Mostra lagunare, indirettamente, di uova. Per fare una crema
riuscita del bianco e del tuorlo di un uovo occorre rimescolare senza sosta,
omogeneamente il tutto, a rischio di fare impazzire anziché no questa
componente di infinite prelibatezze. Ciò sta alla cucina come il lavoro di De Seta per Lettere dal Sahara sta al cinema, ovvero un intento lodevole per la
veneranda età del regista di Banditi a
Orgosolo, ma senza la consapevolezza di come legare gli ingredienti del
documentario e della fiction oggi. Fondere lo stile del primo, sempre
interpretato da De Seta come
documento e trattato di vissuto, con quello del secondo, intrapreso invece come
il vissuto stesso che si fa narrativa, e crea così l’assunto di docu e
fiction. Così era per le produzioni più note del regista palermitano, che ormai
risalgono a più di quarant’anni fa (Banditi
a Orgosolo, Un uomo a metà,
ecc.), e così è oggi, dopo che versioni dei suoi vecchi film vengono restaurate
e riproposte, lui si fa avanti preceduto ancora dalla mdp, questa volta
digitale e opacizzata. Poco nitida perché, ci spiace ammetterlo, ma la qualità
del digitale da lui utilizzato lascia alquanto a desiderare (vedasi la sequenza
dei lampi), anche se al contempo ci riporta a quella dimensione di
artigianalità che ha da sempre contraddistinto il suo fare cinema, manuale,
manifatturiero, quasi pastorale.
I calli alle mani ed il lavoro duro ci piace credere siano i temi dominanti che
hanno portato alla scrittura della sceneggiatura di un De Seta che si esime dal pronunciarsi, spersonalizzando così
ampiamente il suo film e cedendolo in balia dei venti anti-razzisti
dall’eco tipico di una paternale senile e didascalica, negli ultimi dieci
minuti di Lettere dal Sahara. Qui si
concretizza per la prima volta la definizione di docu-fiction, in quel monologo
del maestro che parla ai bambini della condizione sociale internazionale del
popolo africano, sottomesso alla “superiorità” dei bianchi, che sa
tanto di voce off diegetica. Prende spunto dall’esperienza di Assane, un
giovane senegalese approdato in Italia per lavoro e tornato al suo paese poco
dopo, per assuefarci alla morale retorica finale, redatta a tavolino e cosparsa
di luoghi comuni giusto indicati ad un pubblico infantile.
Senza voler passare per carnefici di un’opera che comunque segue, pedina
per due ore il “vivere” beffardo e sventurato di un
“negro” in Italia, ci sentiamo di fare un riferimento e porre una
speranza su di un altro cineasta secolare ancora in vita: Manoel De Oliveira. Costui all’età di novantasette anni
realizza opere “ultraterrene”, come sono state definite da molti,
poste in bilico tra vita e morte e comunque rigonfie di sapienza ed esperienza.
Oggi Vittorio De Seta, che seppure fa
della docu-fiction, all’età di ottantatre anni sembra volersi tenere
tutto per sé. Ci aspettiamo una perla di saggezza e nella vaschetta non abbiamo
altro che un uovo sbattuto, che non è riuscito ad amalgamare due componenti
fondamentali, documentario e fiction. Queste si inseguono e sovrappongono per
due ore tediando lo spettatore e “sorprendendolo” con una obsoleta
morale conclusiva di umanità dei neri e disumanità dei bianchi, gli uni perché
arretrati tecnologicamente e gli altri perché fagocitati dalle macchine.
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