MEAN STREETS

REGIA: Martin Scorsese
SCENEGGIATURA: Martin Scorsese, Mardik Martin
CAST: Harvey Keitel, Robert De Niro, David Proval
ANNO: 1973


A cura di Luca Lombardini

(ITALO) AMERICAN GRAFFITI

La prima metà degli anni settanta non è un periodo felice per Hollywood. O perlomeno, per la Hollywood classica che abbiamo conosciuto nei decenni precedenti: L’epoca mitica degli Studio System che, con la loro struttura verticale e il redditizio apparato dei generi, avevano sostenuto, sostentato e esaltato la fabbrica dei sogni più grande del mondo, era ormai scomparsa da più di quindici anni, cancellata dalla saturazione dei filoni prima e dalla nascita e dall’affermazione della televisione poi. In quegl’anni però, il cinema americano detto indipendente, continua imperterrito a rivisitare la figura classica del gangster, ricorrendo ai nuovi parametri di messa in mostra della violenza sperimentati con le produzioni facenti capo alla factory di Roger Corman che, partendo con La legge del mitra nel 1958, passava al 1967 con Il massacro del giorno di San Valentino e arrivava all’inizio del nuovo decennio con Il clan dei Barker. Nuovi linguaggi e libertà espressive mai viste nel sistema classico, fecero si che una new wave di registi cresciuti sotto l’ala protettrice del buon Roger, si affermasse attraverso la riproposizione della prospettiva tipica degli anni trenta ora (ri)collocata nella la realtà urbana contemporanea. Assieme al Padrino di Coppola, Mean Steets rappresenta uno dei capisaldi di questa meravigliosa rinascita. Scorsese arriva a dirigere il suo terzo lungometraggio tra la regia di America 1929:sterminateli senza pietà e l’ingaggio come montatore di Minnie e Moskovitz di Cassevetes, e proprio da questa commistione tra cinema “alto” e cinema “basso”, va rintracciato il seme capace di rendere Mean Streets un’opera folgorante e categorica, talmente pregna di personalità e talento da affrontare tematiche tradizionali da un punto di vista singolare, che focalizza la sua attenzione non sulle imprese criminali, bensì sul sottobosco quotidiano che fa da sfondo alle mafiose storie di vita, aventi come protagonisti personaggi che rispondono alla drammaturgia hollywoodiana con una follia che rimanda alle nevrosi tipiche del ghetto che li ha visti nascere. Mean Streets unisce l’esperienza giovanile del cineasta con la tradizione stessa del cinema criminale americano, mostrando la malavita come un microcosmo reale, affollato di individui comuni figli dell’adolescenza trascorsa dallo stesso Scorsese tra i vicoli di Little Italy. Partito dal genere cormaniano duro e puro, il regista arriva alla tanto desiderata dimensione d’autore innervando un progetto desiderato per dieci anni con le dinamiche linguistiche tipiche degli anni ‘60, bilanciando alla perfezione la sua risputa passione per il cinema francese e il neorealismo italiano; e se Charlie, Johnny Boy o Tony sembrano provenire direttamente dalla tradizione neorealista, Scorsese prende in prestito da I trafficanti della notte di Dassin il perno narrativo del debito da saldare, mentre non è difficile intravedere richiami ai drammi criminali degli anni trenta targati Warner, o omaggi al gangster movie esistenziale tipo Il fuorilegge, film di Frank Tuttle omaggiato nel prologo che vede Keitel alzarsi dal letto. Dopo Cassavetes, Fuller e la Nouvelle Vague, Scorsese dà il via ad un altro giro di vite finalizzato ad un’idea di cinema basata sullo scavalcamento della sintassi formale, posizionandosi nel mezzo di quella frattura che sta tra Hollywood e percorso autoriale cinefilico, solco creativo che il regista continua a difendere ancora oggi, dividendosi tra il suo essere autore unico e irripetibile e l’infatuazione per i film con i quali è cresciuto, come testimoniano The Aviator o lo splendido Viaggio nel cinema americano. Attraversando la sua autobiografia cinefila, il regista dipinge e incornicia un incubo metropolitano trasfigurato da pennellate furenti in un capolavoro di incredibile stilizzazione visiva. Ogni singola sequenza viene immersa in un ripetersi infernale di luci al neon, notti opprimenti, e illuminazioni da bar di quart’ordine, un sottobosco all’interno del quale si aggirano le sagome di delinquenti in erba decisi a bruciare la loro esistenza, “bravi ragazzi” che non chiedono un futuro diverso semplicemente perché sanno di non poterne avere uno, perciò ritualizzano i comportamenti appresi fin da quando erano ancora in fasce con il solo scopo di ripeterli fino al loro ultimo respiro. Per rendere palese tale condizione non c’è bisogno di eccessi pulp o di esasperanti messe in scena di violenza, bastano e avanzano i rapporti quotidiani ai quali questi individui sono condannati, più che la brutalità in costume di Boxcar Bertha quindi, conta il sottovuoto sociale e psicologico sottolineato magistralmente dall’uso insistito della macchina a mano e dall’esasperazione stilistica che dilata le scene principali fino a farle assomigliare a sporchi piani sequenza, mentre l’unico omicidio che precede l’esecuzione finale viene sottaciuto attraverso l’utilizzo di un anticlimax narrativo che regala attenzione al conciliabolo tra amici al bar. Mean Streets altro non è che il vagito di un cineasta senza eguali, il primo graffito di un murales che, con il passare degli anni, si tramuterà nel fiore all’occhiello di quella che è l’immensa galleria d’arte del nuovo cinema americano.

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