REGIA: George Clooney
CAST: Ryan Gosling, George Clooney, Marisa Tomei, Philip Seymour Hoffman, Paul Giamatti
SCENEGGIATURA: George Clooney, Grant Heslov, Beau Willimon
NAZIONALITA': USA
ANNO: 2011
USCITA: 16 dicembre 2011
T.O: The ides of march
L'UOMO DEL PRESIDENTE
Aver assistito all'epopea televisiva The Wire può equivalere a un bagaglio utile a rileggere il cinema di George Clooney. L'America tutta, il suo life style, prende il posto che fu della singola città di Baltimora nel kolossal catodico targato HBO, ma modificando l'ordine dei fattori il risultato non cambia: dai servizi segreti passando per la carta stampata, fino ad arrivare alla duplice e “medagliesca” faccia della politica; Clooney espande all'intero suolo statunitense la giurisdizione di Baltimora, illustrando le reazioni/risposta della confederazione di stati una volta messa di fronte alle variabili, prima storiche e poi contemporanee, accennate qualche riga più su. Il suo è un cinema “per vecchi”, ma nell'accezione quanto più positiva, orgogliosa e ammirevole possibile dell'espressione. Clooney guarda Pakula da distanza di sicurezza, senza la presuntuosa convinzione di poterlo quanto meno avvicinare, mentre coscienti squarci liberal di un Lumet o di un Pollack fieramente d'annata ci ricordano che si: siamo ormai in presenza di un regista fatto e formato, dalle idee cristalline e dirette, lineare ed efficace nello stile, ancora una volta forte di un cast eccellente, dalle corde del quale estrapolare il meglio di sé. L'impalcatura mass mediatica, o quanto meno le potenzialità insite nel motore della sua macchina, l'insidia che il giornalismo rappresenta, buono o cattivo che sia, torna ad occupare buona parte dell'attenzione e dell'interesse: al contrario Clooney si decentra dalla scena come un tempo riusciva a fare il miglior Eastwood, confermandosi cineasta brillante, mai banale, eticamente ormai inquadrabile ma non per questo meno ammirevole di un tempo, sorprendentemente poco avvezzo alla scorciatoia di scrittura, anche quando la trappola del facile moralismo è lì, a poco più di un passo, allettante, praticamente a portata d'inciampo. Le idi di marzo seziona in compartimenti stagni la coralità di un pacchetto attoriale a cinque stelle, due fazioni (Philip Seymour Hoffman e Ryan Gosling vs. Paul Giamatti) con in mezzo un arbitro (Marisa Tomei, più che mai in parte e a bersaglio emozionale nonostante questa volta le terga siano ben coperte) si contendono il palcoscenico morale, scortati dall'incedere compassato, vettoriale e allergico ai fronzoli della macchina da presa, mai invadente nel donare splendore riflesso ad una matassa di racconto comunque in nessun caso fin troppo complessa, lasciando quindi che sia semplicemente la storia a fare il suo liquido corso, argomentando appena, con un pizzico di sano disincanto, ciò che già si sa o perlomeno si intuisce. Le idi di marzo rintraccia la sua chiave di violino nella modalità attraverso la quale resocontare il vertiginoso saliscendi psicologico di Gosling (convincente, sfaccettato e multistrato come lo fu in All good things, a riprova di come il suo talento trascenda dallo stuzzicadenti in stile Cobra ostentato in Drive), profondo e tortuoso in quanto capace di abbinare, alla prevedibile perdita dell'innocenza, la vera e propria fine di un idealismo sognatore e adolescenziale che nell'America di oggi, tenuta a battesimo dallo slogan “yes we can”, necessita di non poco coraggio per essere raccontato; almeno attraverso il cocktail di realismo misto a pessimismo palesato da Le idi di marzo. La politica è un gioco per furbi, le cui regole non scritte sono però risapute ai più: lo conferma il glaciale faccia a faccia tra Hoffman e Gosling, spalle alla gigantografia della bandiera statunitense, orecchie distratte ad un comizio utopico, quindi impossibilitato a realizzarsi nella vita di tutti i giorni. Comprensibile quindi, che per illustrarla in ogni sua possibile sfaccettatura si scomodi il festeggiamento di Marte, Dio della guerra, o il giorno dell'assassinio di Giulio Cesare (tu quoque, Brute, fili mi!). Da Le idi di marzo tutti escono moralmente sconfitti o con le ossa rotte, nessuno escluso. Dio benedica l'America: ecco che il paragone con il Redford regista non ha motivo di esistere, configurandosi quanto meno come inopportuno. Da queste parti viaggiamo su livelli ben più alti.