SHORT BUS – DOVE TUTTO E’ PERMESSO

REGIA: John Cameron Mitchell
CAST: Sook-Yin Lee, Paul Dawson, Justin Bond
SCENEGGIATURA: John Cameron Mitchell
ANNO: 2006


A cura di Davide Ticchi

‘CAUSE WE ARE ALL MADE OF STARS

Una storia che si apre compulsivamente, penetra e squarcia lo schermo con immagini virulente di sesso omo, etero e sadomaso. Tre piani narrativi legati da una ventilata panoramica aerea che sorvola case di cartone illuminate da luci verde, blu, rosso elettrico, andandosi a concludere in una dissolvenze al bianco, in un flash nel didentro di una delle tante “abitazioni” identiche una all’altra. La location è New York, la città in cui ognuno accorre “per farsi perdonare”, o “scopare” che dir si voglia. E il primo soggetto inanimato su cui la disinibita mdp di Cameron Mitchell si concentra è il grosso alluce della statua della libertà, eterno simbolo, immutato e immutabile, della newyorkesità, quale razza non meglio identificata. Disparata, contraddittoria e problematica perché frutto di un passato frammentato dai personali “sogni americani”, di un presente crollato insieme alle sue iconiche torri e rivolta invece ad un futuro di preoccupante smarrimento, ora che non esistono più tetti così alti da cui poter distinguere la propria posizione rispetto a tutto quello che sta intorno. Rimane il simbolo, il paradigma di questa metropoli del melting pot, quella statua di cui sarebbero rimasti solo alcuni arti fratturati sulla spiaggia de Il pianeta delle scimmie (1968) schaffneriano, e che ora pensa a questa profezia come a qualcosa di artificioso, fantasioso, irreale. E’ infatti una popolazione che vive di raziocinio, pragmatismo e forte consapevolezza dello sconforto da dipendenza del troppo reale che la circonda, delle troppe conseguenze logiche che regolano i rapporti sentimentali e sessuali. Tanto che il ruolo della psicologa è stato soppiantato da quello della sessuologia, Sofia, che non vuole che la si chiami così, che non ha mai avuto un orgasmo in vita sua.
Lo Shortbus è la fetta invisibile dell’aerogramma demografico newyorkese, il locale decentrato e fumoso cui si giunge attraverso il passaparola, il piccolo bus giallo che si occupa di portare a scuola i ragazzi meno fortunati, i giovani emarginati della società. E giovani e confusi sono quelli che siedono sulle poltroncine in pelle lucida dello Shortbus, che scopano per terra e sui tavolini come animali deformi, mutando il proprio aspetto nei bagni o nelle stanzette apposite. Un vero piccolo microcosmo in cui non è difficile ritagliarsi un posto dove stare, per entrare a far parte di gente che non è mai entrata a far parte di nulla, nemmeno della società edonistica di cui sembra praticare le voluttà. In realtà è una ricerca lunga ed insidiosa quella che i ragazzi dello Shortbus hanno intrapreso, una ricerca di radici sentimentali e sessuali che nulla hanno a che vedere con il fottere divertitamente, quanto a quello dalle guance inumidite di lacrime, dai segni rossi sulla pelle battuta dai frustini e dal cuore roso dalla sofferenza, dallo spaesamento di un uomo non più al centro dell’universo, ma aderente ai bordi immanenti del globo terrestre.
Ruolo ininfluente sulla società, dalla quale i protagonisti catturano qualche elemento sporadico particolarmente significativo, che esso sia una fotografia o uno sguardo distratto al Ground Zero. Non badano al lavoro, alla carriera, alla televisione o alla famiglia, semplicemente cercano il sentimento con le persone che amano, o che non riescono ad amare. Angeli belli e dannati che non smaniano a quello che il solito cinema di facciata pseudosociale ci vuole suggerire, pressappoco sesso droga e rock’n’roll. No, gli anni della loro diffusione sono finiti, del distinguere il ragazzo a posto da quello che non lo è, come Larry Clark con Ken Park ci ha insegnato, le villette a schiera sono tutte uguali, difficile distinguere quella dentro cui abita un deviante della socialità da uno della sessualità. Difficile nella middle class di periferia, ancor più intricato discernerli in una metropoli come New York, nella quale anche i gridi di speranza non vengono ascoltati, le fiammelle tenute accese dal caldo dei cuori vengono spente dalla gigantesca oscurità.
Ogni personaggio di Shortbus, secondo lavoro di Cameron Mitchell dopo Hedwig la diva con qualcosa in più, ha qualcosa da affermare, un suicidio, un’impossibilità ad amare, un’impossibilità di orgasmare davanti al “tutto” sordo che circonda la microscopicità dell’essere singolo. Ma è pronto il corto bus giallo ad aprire le porte a soffietto e far salire tutti quelli che lo desiderano, perché per desiderare una vita migliore c’è sempre tempo, e chissà mai che non sia proprio lo Shortbus ad offrire ancora questa possibilità, di desiderio, speranza, riscatto, svolta, redenzione.
Una volta per tutte le storie si interlacciano, interscambiano, confortano l’un l’altra, durante un movimento finale che confonde tutti i piani narrativi, li drammatizza fino all’eccesso del reale, dell’immaginario, del candore. Ognuno raggiunge e realizza il proprio desiderio, non foss’altro che per mezzo del sogno, come Sofia che raggiunge l’orgasmo su una panchina di fronte al mare, dopo aver valicato la foresta del perbenismo, del pregiudizio, dell’arroccamento sempre più temibile di falsi ideali e menzognere sicurezze.
Questi ragazzi e queste ragazze si troveranno in ultimo l’uno di fronte all’altra, insieme per un pezzo finale cantato en travesti. Poi ognuno per la propria strada, ognuno, se lo desidererà, potrà scendere dallo Shortbus quando vorrà, risalire i suoi gradini oppure no.
Una cosa è certa, lo Shortbus sarà sempre pronto ad accogliere tutti i figli delle stelle, che sentono nostalgia di casa e per consolarsi si scopano. Per questo non dovrebbero poter parlare, per questo loro gridano e piangono, aiutano i sentimenti a intraprendere il cammino giusto verso casa, verso il cuore.

 

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(11/12/06)

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