HOLLYWOODLAND
REGIA: Allen Coulter
CAST: Adrien Brody, Ben Affleck, Diane Lane
SCENEGGIATURA: Paul Bernbaum
ANNO: 2006
A cura di Alessandro Tavola
VENEZIA 06’: BANG BANG
YOU’RE DEAD, HOLLYLAND
È uno scritto tutto postumo questo su Hollywoodland:
post film, post Festival, a Morte avvenuta, ad emozioni (e ideologie) del tutto
somatizzate, e soprattutto a Coppa Volpi già data a Ben Affleck. Ma oltre un ghigno derisorio iniziale viene quasi del
tutto naturale, in una visione nostalgica e soprattutto concettuale di ciò che
era Hollywood e di ciò che poteva rappresentare nel mondo, considerare questa
premiazione non completamente assurda – ma anzi Coerente, nonostante
continuerà a riecheggiare come barzelletta cinefiloide per molto tempo.
Si racconta semplicemente delle indagini da parte di Adrien Brody – investigatore fallito – sulla scomparsa
di George Reeves (Ben Affleck), l’attore che negli anni ’40
interpretò Superman sul piccolo schermo, morto in circostanze di
omicidio/suicidio/incidente mai ben chiarite.
Sapendo che il film è semplicemente questo basterebbero le parole
HOLLYWOOD-SUPERMAN-MORTE per poter stillare ipotesi e morali, ma andiamo con
ordine.
Con un regista e uno sceneggiatore ben ancorati a quel parco giochi per
carcerati che sono la tv e i filmetti per bambini made in USA, Hollywoodland è un imponente omaggio al
classicismo americano per forma, luoghi, contenuti e citazioni. Palese rimando
a Viale del tramonto, del quale potrebbe anche essere un ipotetico sequel, ed
eco de I protagonisti, ma soprattutto grande ricalco della radice noir che
imperversava in quegli anni.
Adrien Brody è il più tipico
detective borderline, cinico e qualunquista, costretto a seguire indagini per
le quali non trova il minimo interesse o motivazioni sensate neanche da parte
del cliente. Alcolista sempre più sfrenato e dalla vita sentimentale perduta,
riprende a fumare, segue la vicenda della morte di Affleck per meri scopi commerciali,
sfruttandone tutto il glamour e addirittura la madre, rimanendone però rapito.
Dall’altra, Reeves ed Affleck
sembrano quasi un reciproco specchio: attore incapace e raccomandato, stella
sempre più spenta e incastrato in ruoli di plastica, con infiniti scazzi
sentimentali, dalla sempre più forte sensazione di decadenza.
In una magnifica fotografia patinata ma calda da American Classic, priva di
imperfezioni e ricerche stilistiche azzardate, con inquadrature e dialoghi che
non osano mai troppo e nel completo abbandono di sperimentazioni, i due
personaggi vengono abilmente svelati pian piano, scena dopo scena, assumendo
complessità, sfaccettature e soprattutto una sempre più amara tristezza
intrinseca che, attraverso uno script realizzato col bilancino ma comunque
carico di idee sommate ad abilissimi giochi temporali pre-post mortem
supportati da un intelligente e mai esoso decoupage, riesce a portare a un
completo interessamento alla vicenda, che trova il suo culmine
narrativo/psicologico/visivo/(e soprattutto)montaggistico nella scena finale,
in un onirico, (per)turbante, completamente annichilito – in colori ed
espressioni – sguardo tra i due protagonisti, straziati portabandiera del
decadentismo (più di oggi che d’allora) (anti)statunitense, in un terminare-culmine
che vale tutto il film.
Il singolo contro tutto il resto, il mondo che finisce col soffocare se stesso,
i sogni spezzati. Topici immortali.
Un attaccamento al passato – per luoghi e scrittura visiva – che
assume i connotati di un disfattismo da “No future”, dipinto di
un’America (di un Cinema) dove anche i supereroi (e Venezia) si suicidano
(quando Ben Affleck riceve la Coppa
Volpi): l’annullamento dei dreams, il totale rimpianto, la crisi nel
sentirsi sfilare via da sotto il culo la calda bambagia del firmamento
(cinematografico) americano, la consapevolezza che le cose non stanno andando
bene, dove i premi oscar si fanno ingabolare dai pupazzi, i bambini sparano e
guerre ed ideali (nello spettacolo, nel mondo) sembrano sempre più futili e
insensati.
Con elegante tremore pronto ad esplodere, ma che finisce in un ancor più
micidiale soffio, «Hanno ucciso la macchina dei sogni» sembra urlare Hollywoodland, e poco importa chi sia il
carnefice - se l’avidità, gli istinti, il sentirsi in trappola o
semplicemente la tristezza: ciò è avvenuto.
Hollywoodland, splendente nera Hollywoodland.
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