NUE PROPRIETE’
REGIA: Joachim Lafosse
CAST: Isabelle Huppert, Jérémie Renier, Yannick Renier
SCENEGGIATURA: Joachim Lafosse, François Pirot
ANNO: 2006
A cura di Davide Ticchi
VENEZIA 06’:
NELL’INTIMITA’
Nel perfetto design naturalistico, sobrio, misurato contemporaneo si svolge la
vicenda di una donna di cinquant’anni circa, che vive sola coi due figli
nella campagna belga più isolata. Il verde fa da corollario ad
un’affresco introspettivo interpretabile come il semplice scatto
interpersonale, sfuocato e con gli occhi rossi dall’ira, per le esigenze
deformanti ma legittime che sorgono durante alcune tappe della nostra vita,
svelando tutti i nostri limiti umani ai quali il film si dedica. Essenziale e
minimale fin dai titoli di testa, scritti in bianco su sfondo nero e senza
musiche, il terzo lungometraggio di Lafosse
si inserisce autonomamente in quell’anfratto di cinema diagnostico dalle
multiformi enunciazioni psicologiche presenti nel sottotesto tramico,
edulcorato esteticamente da una moderatezza registica dilagante, che rasenta la
perfezione espressiva. Proprio questa estrema aderenza del manto sintattico a
quello invece della grammatica contenutistica si fa pericolosa quando il
procedere analitico di Nue Propriété
anestetizza l’immedesimazione psicologica dei ritmi routinari della
realtà, captabili nella primissima parte, per fare spazio ai veri biases
comportamentali e relazionali che sfociano nella seduzione materna verso i due
figli e nella risposta astiosa che tra di essi si crea, comprensiva di sesso e
malizia appena accennati. Il fatto di non schierarsi nè dalla parte della
provocazione scandalosa a livello sessuale e paracinematografico, nè di
addentrarsi più di tanto nei meandri cerebrali di un microcosmo in crisi porta
alla percezione di un solido e impenetrabile cubo marmoreo che a toccarlo fa
venire le mani fredde, quanto a guardarlo si prova estrema ammirazione. La
soluzione di questo enigma dalle tinte tipiche del dramma intimista europeo (Intimacy, Caché, Ma mére) risiede nella
partecipazione volutamente fredda e distaccata di uno spettatore chirurgo.
L’attrazione e repulsione per l’oggetto materno, il frutto del
peccato femminile che si fà agente desiderante di nuove esperienze e produttore
di fermenti paranoici edipici mai dichiarati, ma sempre sottintesi fra schermo
e osservatore. Multipli elementi scatenanti della situazione di contesa fra i
due gemelli, con la loro genitrice in cerca di nuove esperienze sentimentali e
di un stabilità che il loro padre non le ha saputo dare. L’intenzione di
vendere la casa semina il disorientamento all’interno delle abitudini
palesate dai due giovani, come il gioco del ping pong e le corse in moto per i
prati. Questo elemento perturbante sviluppa una tensione costantemente subdola
e senz’artigli, ma pronta a fuoriuscire sottoforma di gelide e spietate
intuizioni registiche, come nella sequenza finale del pianto nel bosco di uno
dei due ragazzi, giocata su più piani visivi.
La Huppert dimostra ancora una volta
di essere “forgiata” per questi ruoli, topos femminile di
vulnerabilità rappresa a presuntuosa forza vitalistica, più presunta che reale,
e sostenuta dagli altrettanto formidabili fratelli Renier. Tutto il restatante merito va all’eccellente
dimostrazione di padronanza del mezzo cinematografico di Lafosse, un regista che se non coi premi, rimarrà nella memoria per
una rara disponibilità e varietà nelle riflessioni poste a tutti noi attraverso
il suo film e la corrispettiva conferenza veneziana.
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