STILL LIFE
REGIA: Jia Zhang-Ke
CAST: Tao Zhao, Sanming Han
SCENEGGIATURA: Jia Zhang-Ke
ANNO: 2006
A cura di Pierre Hombrebueno
VENEZIA 06’: APPUNTI MENTALI
SU STILL LIFE DI JIA ZHANG-KE
Non propriamente Still life come “Natura
morta” (significato gergale del termine come lo si usa in ambito
pittorico/fotografico), ma più una traduzione parola per parola: Still life come “Ancora
vita”, sopravvivenza alla morte, o semplice rassegnazione
all’impossibilità di vivere con completezza questa nostra esistenza,
quando la morte stessa diventa la vita, due entità ormai sovrapposte come due
facce non più solo complementari, ma completamente uniti nella stessa unità di
spazio e tempo. Ma in fondo tutto in quest’opera di Jia Zhang-Ke è sovrimpressionata, un meltin’ pot di realtà e
allucinazione, di magia e verità, di vita e di morte. Si vive per morire, o si
muore per vivere (e non è una Marzullata), tra questi non-personaggi che
resuscitano il neo-realismo che fa l’amore col cinema sociologico (quindi,
questa volta, Still Life come
“Frammenti/istantanei/fermo-immagini di vita”), uno scorrere
parallelo a carrellate nella descrizione più visiva del lavoro umano, della
semplicità antropologica, forse documentaristica (non è un caso se il
precedente film dell’autore cinese sia proprio Dong, una versione sottoforma di documentario che narra degli
stessi avvenimenti di Still Life),
comunque coriandoli di vissuto, di sopravvivenza narrativa.
Siamo nel villaggio di Fengjie, sommerso dalle acque a causa della costruzione
di una diga. Le case e le abitazioni sono in via di distruzione.
Gl’abitanti, in emigrazione, se non addirittura in via
d’estinzione. Ci ritroviamo in una micro-apocalisse tinta di surrealismo,
quando la denuncia reportagistica abbraccia la fiction attraverso metafore
umane, oppure inserti lynchiani trip-visivi sovra-umani. Con la distruzione e
lo sradicamento di una cultura e di una civiltà, ritroviamo in parallela 2
storie d’amore giunte alla fine del proprio viaggio: quella di un uomo
alla ricerca della figlia perduta da 16 anni, e quella di una donna dal marito
scomparso da tanto/troppo tempo. Il vero e l’artificiale che camminano
verso la stessa direzione, lo specchio del realismo e quella dell’inganno
(cinematografico) pronti ad incontrarsi nell’ultimo punto di fuga: la
distruzione, sia dei sogni e degl’ideali, sia dei rapporti che dei
sentimenti.
Da una parte Cinema quasi nichilista, ma dall’altra un Cinema che ama
scoprire nuove formalità quasi giocose ed apparentemente insignificanti,
quegl’inserti che improvvisamente ci collocano in fase onirica ed
allucinazione, questo magnifico (in)contrarsi di cinèma veritè et surrealismo
confuso tra sogno (in)visivo. Un’improvvisa ed inaspettata apparizione di
una navicella extra-terrestre che percuote la tranquillità dell’immagine,
come a dirci che l’uomo stesso, nei propri rapporti sociali, è un alieno
alienato e disgregato dai suoi (ormai non) pari. Nel Cinema di Jia Zhang-Ke siamo tutte isole (topos
comunque tipico del Cinema Asiatico d’autore, da Tsai Ming Liang a Wong Kar
Wai), confuse
dall’incaptabilità comunicativa. E palazzi che improvvisamente volano,
palazzi che sprofondano, mondi alternativi che ormai diventano pura visualità,
muovendosi ed unendosi nello stesso spazio e tempo, digressione materica di ogni
solidità tangibile nonché abbraccio collettivo e vena pulsante tra le macerie
di morte.
In Still Life ritroviamo persone
agl’ultimi atti della loro esistenza nel giorno del giudizio, è
l’apertura di un nuovo universo per la sepoltura della vecchia vita. Si
lascia indietro il passato, con solitudine e dramma, per far spazio
all’avvenire, all’utopia. Ecco dunque gl’ultimi atti
d’addio, come il ballo tra la donna e il suo marito finalmente ritrovato,
azione formalmente di ri-appacificazione, ma in verità ultimo saluto alienante.
Come se quel palazzo volante non sia altro che un’astronavicella pronta a
trasportarci in un’altra percezione esistenziale, col mistero della
scoperta, l’eccitazione anestetizzata del dopo.
Quindi, l’autore cinese ritrova vita anche tra le macerie della morte. Il
nichilismo, forse, è sopraffatto da questo gusto (puramente cinematografico)
del riscatto e della resuscitazione, da questa lucidità del sogno, che
solamente l’arte ci promette di avverare (la stessa arte che scorre tra
le televisioni di Fengjie: A better
tomorrow di John Woo, ovvero
trasfigurazione mediatica della “possibilità” e
dell’alter-mondo). Uno sguardo glaciale verso il domani. E noi lì,
speranzosi di sentire i nostri cellulari suonare nonostante siamo sepolti sotto
la distruzione, o di tenere la testa fuori con il nostro corpo rinchiuso in una
valigia, sussurrando un aiuto forse destinato ad essere ascoltato. Magnifico e
grande Cinema, questo di Jia Zhang-Ke,
meritevolissimo Leone D’Oro, coraggioso e avanzato, riflettivo e giusto
nodo d’unione tra occhio e cuore, medium e metabolismo di visioni
suggestionanti, trasporto ideale verso un viaggio infinito ed infinitesimale
dentro e oltre lo scheletro della Settima Arte.
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